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alla faccia del kelso!

VERSO IL REALISMO LIQUIDO

di Gregorio Magini e Vanni Santoni*

[in appendice, a cura di Carmilla, link a discussioni NIE in corso sulla rete]

Non c'è fine, ma aggiunta: il trascinato

conseguire di giorni ulteriori e ore,

mentre l'emozione prende a sé gli anni

di emozione privi, vissuti fra i detriti

di quel che si credeva più affidabile -

e perciò più adatto all'abbandono.

T. S. Eliot, Four Quartets, "The Dry Salvages", II

Il senso di urgenza – tanto nel male dell'emergenza montata ad arte che induce alla paura, quanto nel bene del grido d'allarme che sprona all'azione – è sempre contagioso. Nella frenesia dell'ora o mai più, prendiamo le mosse dal recente saggio di Wu Ming 1, New Italian Epic, per esplorarne rapidissimamente la portata, e saltare subito a suoi possibili sviluppi.

Essendo il ricorso a una modalità epica della narrazione il tratto caratterizzante di questa nuova epica italiana, riteniamo utile un'indagine sulla natura e la genetica di questa epicità [1].

Se il termine ha una storia lunga quanto la storia stessa, ed è perciò questione più di approccio che di proprietà la scelta dell'accezione sotto cui considerarlo [2], appare comunque evidente che il suo utilizzo in New Italian Epic vibra in toni peculiari che si potrebbero qualificare – a dispetto del fatto che proprio da tale contesto WM1 vorrebbe allontanare le opere NIE – come postmoderni.

Leggendo il passo in cui WM1 dà una descrizione del senso in cui intende l'epicità, cosa viene in mente? Certamente l'Odissea e l'Orlando Furioso. Meno appropriatamente, ma forse non troppo, le grandi epopee romantiche di Guerra e Pace o Moby Dick. Ma prima ancora – almeno a noi è capitato – ci appariranno Conan il barbaro che corre nella steppa, i bastioni del Fosso di Helm cinti d'assedio dagli orchi, e l'espressione delirante di Leonida che grida "Stasera ceniamo nell'Ade". La nostra epica, infatti, quella su cui siamo cresciuti, è quella delle saghe fantastiche del cinema hollywoodiano, da Guerre Stellari a Indiana Jones; quella degli appuntamenti quotidiani coi feulleiton animati di Capitan Harlock e Kenshiro [3]; e in misura meno eclatante quella di mille fumetti, giochi di ruolo, videogiochi [4]. Noi leggiamo quindi la nuova epica italiana come la scoperta che un certo filone della letteratura italiana recente germina dalla cultura pop di fine millennio [5], senza prenderne le distanze a priori, senza trattarla o rappresentarla come il mero specchio frantumato di una civiltà, ma anzi prendendone a prestito la struttura per "parlare di cose serie".

rl1_kenshiro.pngWM1 contrappone direttamente la "serietà" di questo atteggiamento alla "playfulness" di un certo "postmodernismo da quattro soldi" – serietà che scaturisce dalla volontà di "recuperare un'etica del narrare". L'epica, in quanto "genere politico per antonomasia" [6], risulta perciò come conseguenza di un fondamento politico della scrittura romanzesca. Noi vogliamo provare a esaminare anche il fondamento più specificamente letterario di questa epica nel romanzo, considerata come già detto in rapporto alla cultura pop.

Per far ciò dobbiamo tornare alla temperie intellettuale dominante dei decenni appena trascorsi, e individuarvi la mancanza che ha prodotto, come reazione, quella che oggi si vuole definire "nuova epica". Un tale lavoro di messa a fuoco, per risultare soddisfacente, richiederebbe un'ampia retrospettiva sulle teorie critiche della cultura e della letteratura postmoderne – con un'attenzione particolare per la storia del romanzo. Non essendo qui possibile una simile trattazione, ci limiteremo a enunciare una proposizione che resterà senza argomenti, abbastanza vaga da essere riadattabile a diversi percorsi di lettura ma abbastanza precisa da consentire di avventurarci momentaneamente al di là della semplice analisi. Il che non è proprio corretto, ma è sempre meglio che passarci direttamente sopra con frasi a effetto come "il postmodernismo è la combinazione di narcisismo e nichilismo" (Al Gore). Quel che segue è quindi da considerare un canovaccio, più che una tesi vera e propria.

Diremo quindi che in un postmodernismo inteso come progressiva frammentazione e relativizzazione di una Weltanschauung europea, il romanzo, che di tale visione era l'espressione letteraria più tipica, ha visto di pari passo squalificarsi i suoi elementi chiave: il soggetto come individuo; l'oggetto come realtà mediata, ossia come mondo; la struttura come narrazione di fatti nel tempo e nello spazio.

Senza voler sminuire la complessità e contraddittorietà del suo percorso, il romanzo del Secolo Breve è plausibilmente interpretabile come il romanzo che si confronta col venir meno dei propri presupposti, cercando nei modi più disparati di riproporli, rinnovarli, seppellirli definitivamente. Il romanzo del postmodernismo compiaciuto, in quest'ottica, è quello che ha definitivamente rinunciato ai propri presupposti, e non vi fa più riferimento se non per ridicolizzare chi cerca di fare il contrario.

Col maturare dell'epoca postmoderna, la pars destruens del postmodernismo letterario ha perso progressivamente in vitalità, non per una sconfitta delle sue posizioni, ma per il dilagare dell'autocoscienza postmoderna in tutti i rami della cultura e della società. Il postmodernismo, da movimento di rivolta contro l'autorità si è fatto condizione universale, status quo, distruggendo con ciò l'ultimo idolo della modernità: quello della distruzione degli idoli.

La fuga nel (e il successo del) romanzo di genere è leggibile, dal punto di vista degli scrittori [7], come un moto di adattamento: gli universi sovrarappresentati (nella letteratura, nel cinema, nella cronaca) del giallo e del noir, ad esempio, costituiscono dei buoni rifugi da una complessità che cresce in modo esponenziale. Nessuno pensa che siano reali, ma sono almeno credibili come "mondi". Col tempo, però, le barriere del genere hanno cominciato a stare strette a un numero sempre maggiore di scrittori. Essi sono apparentemente tornati a rivolgersi alla storia (o alla cronaca) per trovare quella "verità" che non è più reperibile nel caos nella "contemporaneità pura" e di cui però si sente un enorme bisogno [8].

Questi scrittori tendono ormai ad affrontare il problema della crisi del romanzo come un problema risolto in quanto dato per irrisolvibile: hanno smesso di meravigliarsi per la crescita esponenziale della complessità del reale; di disperarsi perché ciò che un tempo chiamavamo mondo è divenuto praticamente inconoscibile; di affidarsi all'inaffidabilità di un narratore o un personaggio fattisi simulacri schizoidi che danzano indifferentemente intorno ai totem e ai frigoriferi; di mettere in scena rappresentazioni di rappresentazioni nel loro aspetto più irreale, vacuo, spettacolare; e – infine – di rifugiarsi nei ripari antiaerei dei generi e sottogeneri per evitare che le bombe della realtà facciano deflagrare la loro narrazione. Iniziano a uscire dai rifugi per guardare in faccia la realtà. Quel che hanno visto non poteva essere altro che la sua rappresentazione corrente: l'immagine pop. Da questa hanno iniziato la ricostruzione. La nuova epica è quindi un primo passo per un rinnovato (o ritrovato) approccio alla realtà.

Vogliamo suggerire un secondo passo, che non avrà la forza dell'oggettività, dato che parleremo non di libri già scritti ma di libri da scrivere, ma avrà forse il fascino di una possibilità finora non colta, e per questo a portata della mano di chi la vorrà cogliere.

La prima osservazione che si può fare, è che la nuova epica – come strumento del romanzo – deve guardarsi dal ritenersi esente, oltre in qualche modo le problematiche poste dalla postmodernità. È necessario metabolizzare, più che archiviare, l'epoca postmoderna; far tesoro dei suoi sviluppi letterari piuttosto che dismetterla come un vicolo cieco: fare altrimenti sarebbe impegnarsi in un'impossibile ricostituzione del romanzo moderno, o addirittura contribuire ad abbandonare la letteratura a un inutile periodo di barbarie concettuale e stilistica. Vediamo adesso tre (fra i tanti) valori della scrittura postmoderna che ci paiono irrinunciabili anche in un'ottica di scrittura epica che tenda a farsi realistica.

Controllo della meta-narrazione. Approcciandosi all'epica con ingenuità, si può correre il rischio di sostituire contenuti (tradizionali o pop) ritenuti reazionari, quiescenti o quant'altro, con altri ritenuti diversi, laterali, e così via, senza però toccare la struttura mitica della narrazione, ottenendo con ciò, al posto di una scrittura mainstream falsa o banale, una scrittura difforme ma altrettanto falsa e banale. Il postmoderno non è solo "incredulità verso le metanarrazioni", è anche un tentativo di ristabilire un contatto con la realtà tramite il controllo delle metanarrazioni, o, sempre per dirla con Lyotard, tramite il ricorso a una molteplicità di giochi linguistici: l'epica purgata dall'esperienza del postmoderno rischia di avviarsi inavvertitamente verso le derive di "300" o di una miniserie bonelliana.

Riduzione della complessità ambientale. Perso nel labirinto di una realtà ipercomplessa, l'uomo postmoderno ha fatto il tentativo di scolpire una sorta di Stele di Rosetta che riportasse la crescita di complessità da un incremento esponenziale a un più gestibile incremento geometrico, in cui la rappresentazione è di nuovo possibile, e credibile. Tale riduzione, come si è visto, se operata per istinto di sopravvivenza col semplice taglio di ciò che non si sa o non si vuole gestire, conduce alle nicchie della narrazione parcellizzata in generi, nicchie, torri d'avorio e bunker. La riduzione deve avvenire per decodifica, ossia rimappando i termini ancora non ridotti su altri termini più solidi, inserendo così il rumore d'ambiente nell'ambito di un sistema (ovviamente complesso – anche se meno –, e rovesciabile in quanto metanarrazione) maneggiabile, anche se solo temporaneamente: ai fini cioè della completezza della narrazione.

Soggettività dell'esperienza. L'epica, per sua stessa costituzione, reprime o quantomeno copre l'individualità dei personaggi, che rivestono quasi sempre la funzione di "incarnare una causa. Quando Orlando abbandona il campo di Carlo Magno, o si distrae, o impazzisce, insomma non c'è, il suo spirito resta, la moltitudine, o chi c'è, porta avanti quello che lui rappresenta. In ultima analisi, è un'icona, un mito, un veicolo per un'ideologia precisa" [10]. L'epica pura è sì un modo di tenere i piedi per terra, ma non può farsi carico dell'interiorità e quindi del rapporto tra attore del reale e complessità, perdendo così una fondamentale conquista del romanzo del Novecento, che il postmoderno ha fatto propria e approfondito (anche avvitandosi in stucchevoli spirali di narcisismo), e a cui non vediamo il motivo di rinunciare.

rl2_acqua.jpgSe tramite l'epica riscopriamo l'esistenza della realtà, possiamo passare al gradino successivo innestando l'epica sulla vocazione originaria del romanzo, che è quella di affrontare la realtà: descrivendola, mettendola in scena, ricreandola. Serve una sorta di "realismo liquido", capace di adattarsi ai continui mutamenti del reale, senza per questo rinunciare al volume che in esso occupa; una narrazione accorata e partecipe che faccia propria l'esperienza postmoderna, intesa come strategia conoscitiva.

Liquido e realistico deve essere anche l'eroe: una figura in grado di "portare la fiaccola" allo stesso modo dell'eroe epico ma anche di reagire alla complessità in modo distaccato e cambiare pelle come un postmoderno. Se l'eroe epico è quello che "quando c'è, non è al centro di tutto ma influisce sull'azione in modo sghembo. Quando non c'è, la sua funzione viene svolta dalla moltitudine, da cose e luoghi, dal tempo stesso" [11], allora, se di nuova epica vogliamo parlare, lo spirito non può essere quello singolare (o collettivo solo nella misura in cui l'eroe appartiene a un popolo) tipico della vecchia epica. Deve invece essere uno spirito corale in cui la collettività è definita dalle modalità di aggregazione intorno a una tensione, a un obiettivo, a un sentire, a un'etica [12]; si capisce quindi che la sua rappresentazione non può ricorrere a strumenti "classici" o si andrà incontro a una banalizzazione "pop" dell'eroe e del suo viaggio. Immaginiamo un eroe che ascolta e che cambia, un personaggio nel quale la liquidità [13] non è una condizione da subire, ma una vera e propria abilità speciale.

La New Italian Epic è quindi una tappa. Ci ha riportato coi piedi per terra, restituendoci uomini e vicende in cui immedesimarci, credere, sperare: da qui è necessario ricominciare a sperimentare davvero. Ripartendo proprio dall'esperienza post-moderna l'epico va integrato con un'interpretazione credibile della realtà che non si fondi solo su storia e cronaca: per questo non ci si può accontentare di un "compromesso tra buona scrittura e sperimentalismo", ed è anche per questo che la "sovversione nascosta di linguaggio e stile" e l'"azzardo dei punti di vista" citati da WM1 ci paiono approcci troppo timidi al problema della presenza dell'autore: giustamente timidi, in epoca di cascami postmoderni, ma comunque da superare.

La prima delle epigrafi scelte da Roberto Saviano in Gomorra è una frase di Hannah Harendt che recita: "Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà".

Il romanzo realista liquido, come quello postmoderno, dovrà essere abbastanza "spregiudicato" da fagocitare tutto e tutto usare, ma, a differenza di quello, deve farlo sempre e solo in base a un principio di necessità: come in parte anticipato dagli "UNO" citati da WM1, il pastiche deve divenire espediente retorico e non stilistico.

Il romanzo realista liquido, come la New Italian Epic di cui non sarà altro che la versione matura, dovrà "affrontare la realtà" e avere radici ben piantate su di essa: è il momento buono per creare i sentieri che servono ad attraversarla veramente, piuttosto che oscillare al suo interno. Sentieri ogni volta diversi, perché il realismo liquido impone di creare un nuovo tipo di romanzo ogni volta, in cui al mondo scomparso della modernità si sostituisce un singolare sistema di sistemi: un romanzo quindi, ma contemporaneamente un Oggetto Narrativo non Identificabile.

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vanno, scusa se non ho scritto nulla, ma avrei bisosngo di un paio di giorni liberi per ragionarci sopra.

però una cosa che avrei voluto dire, senzxa dubbio, è quello che dite voi quando affermate che tramite l'epica andate a ritrovare la realtà.

anzi, il NIE è una controepica, che è spesso in paerto contrasto con la versione ufficiale o, quanto meno, più facilmente accettata delle vicende umane.

Per me fu devastante la lettura di American tabloid, di Ellroy. Non per la qualità letteraria, sulla quale si possono avere pareri diversi, ma per la violenza con cui sembrava volerti dire che quella che lui raccontava era l'America reale, mentre l'altra, quella che ti fanno vedere con le foto di JFK spensierato in barca a vela (con il colorito bronzeo dovuto alle terapie mediche, non alla sana esposizione alla louce solare: ma questo per gli elettori democratici doveva restare un segreto) non è che una specie di arredo scenico, di fondale dipinto neppure con troppa maestria.

Leggo sul corriere della sera di oggi che GWB si sta preparando a scrivere una sua autobiografia, con la consulenza di alcuni storici inglesi, fra cui Simon Schama, autore Rough Crossings: Britain, the Slaves and the American Revolution, in cui raconta la storia degli schivi neri che, come gli irochesi di Manituana, scelsero di stare con le giubbe rosse del re contro i coloni (che erano schiavisti). Ho trovato paradossale questo accostamento fra vicende che sembra tagliate su misura per un oggetto narrativo della NIE ed un uomo che sembra avere bisogno di una sua epica ad personam, per 'non essere ricordato come il peggior presidente della storia'. Però la speranza che un giorno qualcuno racconti la storia di questi anni nordamericani come Doctorow ha fatto per l'armata di Sherman in marcia attraverso la Georgia e le due Caroline c'è sempre, no?

sorry per la frammetanrietà e l'incoerenza, but è tardi e mi aspettanop per 2 ore di riunione

^__^

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