ANTIFASCISMO DEL TERZO MILLENNIO

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Celebriamo il 25 aprile senza sapere neppure più perché. La maggior parte dei nostri concittadini ne ha una vaghissima idea. O meno. E Salvini può permettersi di fare sarcasmo e dichiarare che non festeggia, lasciando i soliti esasperanti antifascisti in servizio effettivo permanente cadere nella provocazione. I più vedono il fascismo giusto nei quattro scalmanati di Forza Nuova e Casapound; qualcuno azzarda a pensare che Salvini sia fascistoide. Pochissimi capiscono che il fascismo è una cultura, un linguaggio, uno stile, una gerarchia di preferenze, un complesso di comportamenti che sta invadendo l’Italia, l’Europa, gran parte dell’Occidente.

Il concetto di ‘fascismo’ non può essere utilizzato solo per identificare il ventennio mussoliniano e i suoi seguaci contemporanei; ‘fascismo’ è un’idea di sopraffazione, di gerarchia, di identità esclusiva, che si riverbera nell’idea del rapporto di genere (maschilista), dell’approccio allo straniero (razzista), della superiorità di un “noi” da contrapporre agli altri, con conseguenze sulle scelte economiche (protezionismo autarchico), sociali (prima gli italiani), culturali (negazionismo storico). Il fascismo seduce il popolo e lo usa come strumento di consenso, di collaborazione e delazione, di coercizione delle minoranze.

Soprattutto il fascismo è omologazione, massificazione, stereotipia di pensiero. Resto affezionato alla frase di Roland Barthes – più volte citata sul blog Hic Rhodus:

IL FASCISMO È OBBLIGARE A DIRE.

Il fascismo è massa compatta, consenso senza discussione, credere-obbedire-combattere, fiducia assoluta nel leader, disprezzo per il pensiero critico, persecuzione del diverso. Il fascismo ha bisogno di questa omologazione, in un popolo obnubilato, senza memoria storica, senza strumenti culturali, che ripete come un mantra l’ultimo slogan, l’ultima parola d’ordine, l’ultima direttiva. 

Il fascismo del ventennio ebbe pochissimo bisogno del manganello e dell’olio di ricino; ebbe pochissimi avversari, pochissimi eroi che testimoniarono apertamente la loro avversità; e costoro pagarono a caro prezzo. Tutti gli altri, la grandissima maggioranza, tacquero per adesione reale o per pavidità. Questa adesione di massa al fascismo deve ridimensionare la favola consolatoria della Resistenza. Sotto il profilo militare, questa ebbe un impatto irrisorio, e la liberazione la dobbiamo agli Alleati che spesero migliaia di vite per noi. Sotto il profilo simbolico, certo, fu importante per dire a noi stessi che qualcuno aveva capito – semmai tardi – e aveva pagato con la vita. Bene. Bene la Resistenza come valore simbolico, purché poi ci si sieda al tavolo storico per leggere anche le efferatezze di alcuni partigiani, il successivo silenzio sulle foibe, il non trascurabile allineamento del PCI al soviet russo. Settant’anni fa la Resistenza ebbe un ruolo. Ancora cinquanta, quarant’anni fa aveva un suo valore simbolico, di memoria da non cancellare. Ma oggi?

Oggi non esiste un pericolo fascista inteso come presa del potere da parte di uno Iannone, di un Fiore, o di altri personaggi che devono essere ridotti a un problema di mero ordine pubblico.

Oggi il potere è già in mano a chi, senza levare il braccio nel saluto romano, senza ostentare la minaccia della forza fisica, cavalca la massificazione culturale degli italiani vivendo il culto della personalità, istruendo le masse con slogan ipersemplificati, vellicando egoismi, esclusioni, reazioni verso le minoranze più visibili e più critiche. Oggi al governo dell’Italia abbiamo un partito chiaramente fascista nel senso qui indicato, alleato con un patetico movimento protofascista, come protofascisti sono tutti (nessuno escluso) i movimenti populisti. 

Questo potere ha avuto un’origine non recentissima: parte dal populismo berlusconiano, dall’arrembaggio intelligente ai mezzi di comunicazione di massa, dalla capacità di Berlusconi e dei suoi consiglieri di creare un linguaggio, una sottocultura di spazzatura qualunquista, di garantismo a senso unico, di ottimismo da sagra. E, soprattutto, sopra ogni altra cosa, questo potere arriva dalla sinistra che mai ha saputo contrapporre un diverso stile, un diverso costume, un diverso linguaggio. La sinistra italiana (tutto ciò che chiamate sinistra, ciascuno la sua, è indifferente) è diventata una sinistra populista o che cerca di inseguire il populismo nel suo stesso terreno. Il PD di Zingaretti cerca rifugio guardando al passato, mentre alla sua sinistra gli ultracorpi hanno già trasformato fior di “compagni” nei peggiori populisti (ripeto: il populismo è prodromico del fascismo); basta guardare la fine di Fassina, con un programma politico nella sostanza identico a quello di Casapound (ne ho parlato QUI).

Perché nella confusione concettuale che regna, nel mescolarsi attuale di ideologie, nello iato fra popolo ed élite, nel diffondersi di potentissimi strumenti di consenso di massa, nella quasi scomparsa capacità di critica, nell’ignoranza celebrata come valore, il populismo fascistoide e il fascismo palese non riescono quasi più a trovare avversari politici, salvo sparute resistenze individuali destinate a soccombere.

Oggi, 25 aprile 2019, dobbiamo osservare un altro modo di imporsi del fascismo. Un modo subdolo e vincente che richiede una riflessione nuova, e un nuovo antifascismo.

Un antifascismo senza “antifa” sui muri, senza slogan su Facebook, senza ANPI sempre ideologica e – in ciò stesso – fascista, senza sinistra militante antifascista di diritto, sempre ideologica e – in ciò stesso – fascista, senza frasi fatte, senza idee pensate da altri, sempre vigile su ogni parola espressa, perché oggi il fascismo e l’antifascismo si giocano sul terreno del linguaggio.

Il linguaggio ci fa dire, e si impone su di noi per la sua natura coercitiva (questo intendeva Roland Barthes); il detto cambia il mondo, lo forgia, lo trasforma. Ogni parola è una pietra che costruisce muri o ponti nella nostra società, nel nostro agire quotidiano, nel nostro agire politico. Le parole ci sommergono e ci pilotano; ci opprimono e ci indirizzano; ci seducono e ci ingabbiano. La grande differenza fra il ventennio di Mussolini e questo primo ventennio del terzo millennio riguarda la tecnologia della comunicazione, Internet 2.0. Facebook. È assolutamente provato che non solo Facebook ci condiziona, ma che tali condizionamenti sono ultimamente pilotati ad arte in modo da condizionare l’evolversi degli scenari politici (QUI il caso Brexit come recentemente analizzato da Carole Cadwalladr). Se Mussolini avesse avuto Facebook saremmo ancor oggi tutti in orbace! E cosa fa Facebook, se non moltiplicare il linguaggio? Facebook (e Instagram, e Twitter) è linguaggio che viene diffuso e moltiplicato. Nessun manganello, nessun olio di ricino. Oggi chi sa pilotare i social media governa, e può profondamente influire sulle masse domestiche come su quelle straniere (la presenza di potenze straniere in questo nuovo intrigo direi che è assodata).

Ci troviamo quindi di fronte a un dilemma cruciale: senza parole non esiste società, ma le parole – sempre fonte di potere – oggi riescono a indirizzare interi popoli, le loro scelte, senza che ne siano consapevoli, e anzi nella certezza di avere ragione, di essere nel giusto, di “sapere come vanno le cose”, e ancora: senza una reale possibilità, fosse pure ex post, di mostrare l’errore, di ragionare con dati e argomenti, di chiarire il disastro…

Oggi ci serve un antifascismo della parola.

Un faticosissimo, estenuante, pericoloso antifascismo della parola, capace di testimoniare, sempre, con continuità, una verità. E cos’è la verità, se non quella limitata, contingente, parziale, sfuggente che costruiamo momento dopo momento in una relazione non mediata col mondo, con la società, con gli altri e con le loro idee? Una verità negoziale, convenzionale, relativa e operativa. Ma soprattutto, appunto, non mediata

  • Non mediata da ideologie, prima di tutto. Non mediata da stereotipi, da cliché, da luoghi comuni, da linguaggi obbligatori (come quelli oggi definiti “politicamente corretti”). 
  • Non filtrata dai social media; usiamoli i social media, certo, ma evitando di aderire a ciò che non si conosce e capisce, evitando di entrare in ogni flusso eterodiretto replicando frasi vuote, forse consolatorie, forse false. 
  • Non mediata da leader veri o presunti. È straordinariamente sciocco appropriarsi di parole altrui e farle proprie, come un mantra, come una verità, tale perché detta da una persona nota ai più, famosa in quel momento.

L’antifascismo del terzo millennio combatte il falso, la fake news e le post verità, non ha paura di dire cose scomode, non tollera gli imbecilli, combatte, per quanto fiato ha in corpo, l’omologazione, la massificazione, l’ideologismo, il politicamente corretto, il linguaggio consumato, il pensiero piccolo borghese e quello populista, la scorciatoia logica, la mancanza di consequenzialità, l’irrazionalismo, l’ipocrisia, la cretineria dei no vax come la barzelletta dei terrapiattisti, esempi orridi dell’antiscientismo trionfante.

Oggi essere antifascisti vuole dire essere razionalisti. Laici. Inclusivi. Disincantati. Questa è la formula del pensiero critico, l’unico capace di opporsi all’essenza del fascismo (l’omologazione) e alle sue molteplici rappresentazioni.

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