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Quelle cose che fanno bene al calcio


MasterMatrix
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  • 2 settimane dopo...
  • 4 settimane dopo...
  • 2 settimane dopo...

Caro papà! Non ci crederai, ma spesso mi chiedo ancora oggi come mai da un padre interista come te io sono juventino.
Te l'ho anche chiesto più volte, ma tu, una risposta non me l'hai mai data, perché forse non c'è.
Tu interista vero, da sempre, che andavi a vedere l'inter quando per caso capitava a Padova, nel vecchio Appiani, e che le partite le ascoltavi dalla radiolina, ricordo che mi hai portato a vedere l'inter due volte, a Bologna e a San Siro nell'ultima stagione del tuo idolo Sandro Mazzola.
Sarà stato che quella partita l'Inter la gioco' contro il Juventus, sarà stato che vinse la Juve, sarà stato che poi il fratello più grande del mio migliore amico e vicino di casa passò alla Juve (Luciano Favero) io ricordo di essere sempre stato juventino, e tu non hai mai voluto cambiare questa cosa. 
Non ricordo che mai una volta tu mi abbia detto qualcosa a riguardo, abbiamo sempre guardato le partite insieme di Inter della Juve e anche altre. Ricordo quando mi portavi a Udine o Bologna o Verona, che sono gli stadi che abbiamo più comodi, per ammirare i più grandi campioni che giocavano in Italia. Da Zico, Platini, Falcao, Socrates, Maradona, Van Basten ecc... Indipendente con chi giocassero, mi hai insegnato che i campioni non hanno maglie e non si deve odiare per forza un giocatore perché avversario.
La classe è un bene per tutti e va vissuta e amata anche se indossa colori diversi da quelli che porti nel cuore. Tra di noi mai un litigio nonostante le nostre fedi sportive diverse, un milione di partite guardate insieme.
Il ricordo del mondiale '82 spagnolo è vivo più che mai dentro di me. Avevo 10 anni e mi feci salire sulla Fiat ritmo 60 L, e girammo tutta notte a festeggiare con chiunque trovammo per strada.
Ricordo addirittura che ti ho visto esultare nel '96 quando Jugovic insacco' il rigore decisivo nella finale di Champions a Roma, io ti guardai strano, ma non mi dissi niente e io capii che per un padre l'amore per un figlio può andare oltre a queste cose.
D'altronde, nel 2010 alla doppietta di Milito contro il Bayer, che ti portò quella benedetta Champions, non riuscii a non provare un pizzico di gioia per te, e quell'abbraccio stretto che mi desti lo porterò dentro sempre, anche perché vedere una lacrima di gioia in tuo padre a 70 anni, per una passione che è la stessa che hai tu, fa sì che in quel momento non ci siano colori di maglia.

So benissimo cosa pensi di quanto successo nel 2006, ma questo ce lo teniamo noi. I messaggi o le telefonate dopo le mie delusioni Champions arrivano sempre puntuali e sono gli unici gesti che realmente mi servono per andare avanti.
Mi hai insegnato un calcio che spesso non trovo quasi più, tu che non sei social mi consigli spesso di lasciare perdere, e di vivere questo sport con l'amore e la passione che merita, e di non farmelo rovinare da questa nuova frontiera.
Siamo un interista e uno juventino anomali, sarà perché l'amore e l'affetto sono sopra tutto, o perché comunque io ti devo tutto sulla passione per questo sport, ma riusciamo a parlare di calcio tra di noi come pochi riescono.
A volte mi capisco più con te che con altri juventini. Sai vedere il bello e buono su tutto e tutti, per l'amore e la passione che hai sempre avuto per la tua Inter, meriteresti la presidenza ad Honorem.
Domenica sera non hai esultato né festeggiato, mi hai detto che un quarto posto non si festeggia, è solo un introito per la società non un trofeo sportivo.

Sono juventino e non riesco proprio ad odiare l'inter come molti fanno, e tu da interista porti lo stesso rispetto per la mia Juve. Mi piacerebbe risalire su quella Ritmo e andare in qualche stadio ancora io e te, a vedere il CALCIO, ma ormai, l'età, la vita che va avanti per la sua strada non ce lo concede più, pazienza, nel cuore sarà un ricordo indelebile, le partite ce le guardiamo insieme in tv quando è possibile e va bene così. Ora avrai Conte e qualche soddisfazione tornerai a togliertela, anche se nel 2010 con la Champions alzata in cielo mi hai detto "ok ora posso morire tranquillo" tempo ne abbiamo ancora. Anche se a dire il vero toccherebbe a me la prossima volta, e ci giurerei che saresti contento comunque.
Ciao papà, alla prossima stagione. 

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  • 2 settimane dopo...
  • 1 mese dopo...
  • 2 mesi dopo...

mi dicono che è del 2016 ma è la prima volta che lo vedo.

I tifosi del Feyenoord hanno invitato i bambini  malati di  cancro curati da un Ospedale di Rotterdam. Per assistere alla partita di campionato. I tifosi della squadra ospite Ado Den Haag sapevano che i bambini sarebbero  stati nel settore sotto il loro. Guardate cosa hanno combinato....

 

 

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  • 4 settimane dopo...

Questi sono i giornalisti con la G maiuscola! :heart:

 

L'Inter e quelle lacrime sulla sconfitta col Cagliari del 1974

di PAOLO GALLORI

 

Il tifo per Mazzola, la fotografia firmata da Boninsegna e quel calcio sognato aspettando Novantesimo Minuto
 
“A Milano, Cagliari batte Inter uno a zero…”. Era il tardo pomeriggio di lunedì 21 gennaio dell’anno 1974. Era un lunedì e non so dire perché si fosse giocato il campionato proprio quel giorno. Era ben lontano nel futuro il tempo del calcio spezzatino televisivo, ma tant’è, Paolo Valenti elencando i risultati del campionato di Serie A in apertura di “Novantesimo minuto” mi aveva appena rovesciato addosso la più inaspettata débâcle casalinga della mia Inter. Non avevo ancora compiuto 10 anni, ignoravo del tutto l’esistenza delle radiocronache. Così, ogni santa domenica con qualche rara eccezione, come quell’infausto lunedì, ripetevo il masochistico rito di aspettare trepidante davanti alla tv “Novantesimo”  per apprendere cosa avesse fatto la mia squadra del cuore. Da bravo bambino, la mattina andavo anche al catechismo e subito dopo a messa, onestamente più per dovere che per autentico credo. Qualcosa di simile alla fede, allora, era racchiuso solo in quei due colori, il nero e l’azzurro.
 
Ebbene, quel lunedì di 45 anni fa la mia fede calcistica vacillò davvero, perché quel risultato, Inter-Cagliari 0-1, al ritorno a scuola il giorno dopo mi avrebbe esposto a qualcosa di molto simile alla gogna. Pur non essendone originario, stavo crescendo in un paesino del Sud, lontano da grandi centri urbani e squadre locali di autentico riferimento. I ragazzini erano automaticamente portati a innamorarsi dei grandi club del Nord, perché vincevano. E siccome a nessuno piace perdere, era chiaro perché quasi tutti i miei coetanei fossero juventini. La Juventus, anche allora, era garanzia di successo. Costante, prevedibile, certo. Anche Inter e Milan erano club di grandissimo prestigio, nel decennio precedente avevano dominato il calcio europeo e mondiale. Ma di quei trionfi, a chi era bambino nei primi anni Settanta, arrivava solo un’eco dal passato. Il presente di Inter e Milan era racchiuso in un’unica parola: decadenza, per l’inevitabile parabola discendente dei loro campioni e la lunga attesa per un ricambio generazionale all’altezza di chi era stato mito.
 
 
Perché non era prevalso anche in me l’istinto di sopravvivenza, in questo caso il puro calcolo delle probabilità di successo rispetto all’andare incontro a sofferenza certa? Ancora oggi non so darmi una risposta. L’Inter aveva vinto il suo ultimo scudetto nel 1970-71, quando ero ancora troppo piccolo per viverlo con consapevolezza. Forse il gusto estetico: per me la maglia dell’Inter è la più bella del mondo. O il fresco clamore dei Mondiali di Mexico 70 e il gran parlare del dualismo tra Mazzola e Rivera. Il “Baffo” mi sarà stato più simpatico. “Papà, in che squadra gioca?”. O forse un inconscio desiderio di contrapposizione con un ambiente di cui faticavo a comprendere anche la lingua, col risultato di fraintendimenti continui e tante scazzottate. Allora, petto in fuori e “io sono dell’Inter”.
 
“Petto in fuori”, per l’intero decennio dei 70 l’Inter aveva in serbo per me solo dolori. Con la Juve si perdeva quasi sempre, in casa e fuori. Col Milan ci si dividevano i derby, ma fu un colpo durissimo la sconfitta patita ad opera dei cugini nella partita in cui ci si giocava davvero qualcosa, la finale di Coppa Italia 1976-77: Rivera, all’ultimo confronto con un Mazzola al passo d’addio, pennellò un assist perfetto per Maldera, Braglia chiuse i conti con un fulminante contropiede nel finale di partita. Nel frattempo io mi avviavo a diventare un fuoriclasse nella giustificazione dei fallimenti, nella ricerca del rigore non concesso, dello sbaglio dell’arbitro, della sfortuna delle occasioni mancate. La verità era che la grande Inter non c’era più e io avevo scelto il tempo più sbagliato per diventarne tifoso.
 
Lunedì 21 gennaio del 1974 mi ero illuso di poter vivere una giornata calcistica tranquilla. Il Cagliari di Gigi Riva era ormai l’ombra della squadra che Manlio Scopigno aveva condotto a uno storico scudetto nel campionato 1969-70. Ora l’allenatore dei sardi era Beppe Chiappella, che più tardi avrebbe onorevolmente servito anche la causa nerazzurra. Riva era ancora in campo dopo le resurrezioni seguite a infortuni terribili, ma viveva il suo personale crepuscolo lottando con i compagni per evitare la retrocessione in B. A Milano invece era tornato in panchina nientemeno che Helenio Herrera, il “mago” dell’Inter che dieci anni prima diventava euromondiale mentre io venivo al mondo. Di quella squadra leggendaria, erano ancora titolari Mazzola, Facchetti e Burgnich.
 
Prima di Inter-Cagliari, l’illusione di un ritorno alla gloria del passato era ancora viva solo negli ottimisti a tutti i costi, come me. Dopo quei 90 minuti non se ne trovò più traccia. Il Cagliari aveva resistito all’assalto nerazzurro, le frecce spuntate dell’attacco interista, l’ex cagliaritano Roberto Boninsegna, Peppiniello Massa e Carlo Muraro, erano rimbalzate sui guanti di Enrico Albertosi. Finché, al 76mo minuto, proprio Gigi Riva aveva bucato quelli di Ivano Bordon con un tiro da fuori area, credo su calcio di punizione dal limite. Ed io, il fuoriclasse degli alibi quando si trattava di motivare la sconfitta contro Juventus o Milan, non ero preparato a una tale rovinosa caduta. Valenti a Novantesimo non aveva neanche terminato la lettura dei risultati che la mia mente era già proiettata al domani. Immaginai il ritorno a scuola e l’impietosa presa in giro per la quale, in quello stesso istante, tutti i miei compagni di scuola juventini e milanisti si stavano fregando le mani. Ebbi un crollo emotivo e piansi.
 
“Ma stai piangendo?”. Era la voce di mio padre. Fui assalito dal pudore, non ebbi il coraggio di rispondere, trattenni i singhiozzi e mi sforzai di ricompormi. Non riuscii a essere sincero con mio padre, non lo credevo in grado di comprendere la portata del dramma esistenziale in cui quell’Inter-Cagliari 0-1 mi aveva sprofondato. Perché mio padre era l’adulto più distaccato dal calcio che io conoscessi. Seguiva Novantesimo soltanto per verificare i risultati sulla schedina del Totocalcio. Lui non studiava le partite per indovinare il risultato. Nelle due colonne allineava sempre sempre la stessa sequenza di uno, due, ics ed era felice quando scopriva di aver puntato su esiti contrari alla logica. Se la dea bendata del pallone un giorno lo avesse assistito, avrebbe incassato la vincita milionaria che gli avrebbe cambiato la vita. Un agnostico del calcio, non poteva capire.

 

"Mio padre e il Grande Torino"


E invece no, la realtà era molto diversa. Mio padre era stato un bambino esattamente come me. Appassionato di calcio, tifoso della Roma e stregato dal Grande Torino. Scoprii anni dopo con quale cura avesse custodito una ingiallita copia del “Calcio Illustrato”, un numero monografico dedicato proprio al più grande undici della storia granata consegnato alla leggenda dal disastro aereo di Superga. Fu la vita a strappare via l’innocenza di mio padre, proprio quando aveva la mia età, dieci anni. Nel 1938 si trovò improvvisamente senza papà. Il nonno era morto nella catastrofe che devastò uno stabilimento chimico destinato in epoca fascista alla produzione di esplosivi. C’era stata una prima deflagrazione, lui fu tra i primi ad accorrere in soccorso degli operai rimasti intrappolati tra il fuoco e le macerie, fu investito da una seconda esplosione.
 
La tragedia familiare e la guerra cambiarono mio padre e il suo destino. Oltre a essersi preso la vita di mio nonno, quello stabilimento chimico fu obiettivo di martellanti bombardamenti. Con la comunità sfollata, papà percorse più volte chilometri di campagna disseminata di orrori per scambiare qualcosa con carne e uova al mercato nero. Nei suoi occhi di ragazzo rimasero impressi non solo cadaveri in divisa e mostrine, anche la meschinità e la disonestà di cui può essere capace l’essere umano in tempi difficili. Con questo fardello, terminato il conflitto e primo figlio maschio, prese la via dell’emigrazione. Dopo dieci anni di Brasile, tornò per rivedere sua madre e non ebbe la forza di lasciarla ancora. Ma non restò in paese. La sua storia di emigrazione continuò in Italia, finché un giorno, da marito e padre, non decise di fermarsi in quel paesino del Sud. Dove ogni sabato avrebbe giocato la stessa schedina, sperando nella vincita che avrebbe cambiato quella sua difficile vita.
 
Dunque, anche mio padre era stato un bambino, solo meno fortunato di me. E quel pomeriggio del 21 gennaio di 45 anni fa, aveva compreso le mie lacrime. Di fronte al mio chiudermi a riccio non aveva insistito. Ma non aveva lasciato cadere la cosa, come scoprii con grande sorpresa qualche mese dopo.

 

Quella foto di Boninsegna


Era un assolato giorno di primavera, il dolore di Inter-Cagliari 0-1 era ormai metabolizzato e l’Inter, affidata alla guida di Enea Masiero dopo l’improvviso ricovero di Herrera, era protagonista di un finale di stagione scoppiettante, impreziosito da un derby vinto addirittura per cinque a uno. Quel giorno tornavo a casa dopo la scuola particolarmente soddisfatto. Avevo la tasca del grembiule piena di figurine: in una bustina avevo trovato quella, rarissima, di William Vecchi, proprio il portiere del Milan che aveva raccolto cinque palloni in fondo al sacco. Lo avevo scambiato senza esitazioni (mai completato un album in vita mia) e ne avevo ricavato un bel pacco di doppioni senza valore ma perfetti per giocare sui marciapiedi con gli amici.

Affamato, mi sedetti a tavola davanti a un piatto di minestra fumante. “Non ti sei accorto di nulla?” sentii dire a mio padre, illuminato da un sorrisetto furbo. Lo guardai perplesso. Lui mi fissò e con lo sguardo mi rivolse un chiaro invito a scrutare sotto il piatto. Toh, una busta da lettera arancione. “Che cos’è?”. “Apri e guarda”. Aprii e guardai. Dentro c’era una foto. La estrassi con delicatezza. Uno scatto in bianco e nero. Un calciatore dell’Inter fissava l’obiettivo finendo col guardarmi negli occhi, in una posa che simboleggiava il suo ruolo di bomber: le braccia infilate tra le maglie di una rete da calcio. Sulla foto l’autografo vergato con un pennarello blu: “Roberto Boninsegna”. Dietro, il timbro del fotografo ufficiale dell’Inter, Marco Ravezzani.
 
Non so quanto tempo restai a osservarla. Devono essere stati lunghi minuti di felicità, se quando distolsi lo sguardo dalla foto per rivolgerlo verso mio padre la minestra non fumava più e il colpaccio delle figurine nemmeno lo ricordavo. Quel pomeriggio del 21 gennaio, commosso dal mio pianto di piccolo tifoso innocente e impotente, il mio papà aveva preso carta e penna per scrivere una lettera che avrebbe spedito all’indirizzo “Inter, Milano”, raccontando l’accaduto. Credevo che il mio papà non mi capisse, invece sapeva tutto del mio tifo per l’Inter e del conto da pagare all’amore per una squadra di calcio. Sapeva persino chi fosse il giocatore che ammiravo di più, Boninsegna.

Centravanti piccolo e robusto, combattivo, il "Bonimba" era dotato di spiccate doti acrobatiche e grande elevazione, i suoi gol di testa erano sempre capolavori di tempismo, potenza e bellezza. Capocannoniere con l’Inter campione d’Italia 1970-71, Boninsegna resta nella storia dell'Inter e nell'epica del calcio europeo anche per la lattina che lo centrò alla testa negli ottavi di finale della Coppa Campioni 1971-72 in casa del Borussia Moenchengladbach. Il match si trasformò in una corrida e finì 7-1 per i tedeschi (prima di andare ko e abbandonare la sfida Boninsegna aveva segnato il gol del momentaneo pareggio). Grazie al fattaccio della lattina l'Inter ottenne la ripetizione, vinse a San Siro 4-2 (altro gol di Boninsegna) e passò il turno pareggiando 0-0 la replica dell'andata, giocata stavolta a Berlino. Il cammino europeo dell'Inter sarebbe proseguito quell'anno fino alla finale, persa per 2-0 contro l'Ajax a Rotterdam, il 31 maggio 1972. Ma Boninsegna fu anche l'uomo che servì a Rivera la palla del 4-3 alla Germania nella leggendaria semifinale dei Mondiali in Messico del 1970, oltre a segnare l'unico gol azzurro, l'illusorio pareggio, nella finale stravinta per 4-1 dal Brasile di Pelè.

Guerriero di mille gloriose battaglie, Boninsegna era entrato nel mio cuore e nella mia fantasia. E ora era lì, tra le mie dita, che mi fissava infilando le mani nella rete. Così Inter-Cagliari 0-1, una sconfitta, è diventata la mia “partita della vita”. Perché a lei è legato uno dei ricordi più belli e struggenti della mia infanzia. Perché dopo quella batosta qualcuno all’Inter lesse la lettera del mio papà e accontentò la sua richiesta di fare qualcosa per consolare il suo bambino. Se la mia fede nerazzurra aveva vacillato il 21 gennaio del 1974, quel gesto aveva reso “umana” e mi aveva fatto sentire vicina una squadra di calcio che fino a quel momento avevo vissuto solo attraverso una tv in bianco nero da un piccolo paese del Sud. Perché mi ha insegnato che nessun risultato è già scritto e il fallimento non è un destino ineluttabile. Che la tristezza accudisce il seme dell'allegria e i fiori sbocciano anche nel deserto, come un dono miracoloso. Soprattutto, capii che mio padre era il mio miglior amico e lo avrei avuto sempre accanto, nelle piccole e grandi cose della vita.

 

Epilogo


Nel 1973-74 la Lazio allenata da Tommaso Maestrelli vinse il suo primo campionato, il centravanti biancoceleste Giorgio Chinaglia incoronato capocannoniere con 24 gol, solo uno in più del mio Boninsegna. Anche grazie a quella insperata vittoria a San Siro, il Cagliari si salvò, ma la sua retrocessione era solo rimandata. Accadde al termine della stagione 1975-76, durante la quale Gigi Riva subì l'ennesimo grave infortunio e disse addio al calcio giocato. Nell’estate del 1974 l’Italia di Valcareggi affondò ai Mondiali in Germania e i reduci della finale di Mexico 70, che ancora costituivano l’ossatura della nazionale, compresero che il loro tempo volgeva al termine. Boninsegna avrebbe vinto ancora lo scudetto nel 1976-77, ma con la maglia della Juventus. Albertosi passò al Milan e con Rivera non avrebbe mollato prima di aver consegnato al Diavolo lo scudetto della stella, campionato 1978-79.

Proprio allo scadere del decennio, finalmente Inter. Guidati dall'allenatore Eugenio Bersellini, i nerazzurri risposero ai cugini rossoneri vincendo invece quello che le cronache sportive consegnarono agli annali come lo “scudetto dei giovani”. L'Inter 1979-80 era una squadra formata soprattutto da calciatori cresciuti nel settore giovanile nerazzurro: il portiere Ivano Bordon, i difensori Nazareno Canuti e Beppe Baresi, il libero e capitano Graziano Bini, il velocissimo attaccante Carlo Muraro e il "veterano" Lele Oriali a cui, all'età di 19 anni, era toccata la missione impossibile di marcare sua maestà Johan Cruijff nella finale di Coppa Campioni persa nel 1972. Nel giro di un paio di stagioni si erano perfettamente inseriti giovani talenti emersi dalla serie B, come il centravanti Alessandro “Spillo” Altobelli, il fantasista Evaristo Beccalossi e il tornante Giancarlo Pasinato. Ma il gol del dodicesimo scudetto interista, sigillo al definitivo 2-2 casalingo con la Roma il 27 aprile 1980, lo segnò un reduce: Roberto Mozzini, stopper del Torino campione d'Italia 1975-76.

Fu l’ultimo campionato senza stranieri e la prima vera gioia da interista per sempre. Non ho più pianto per il calcio, nella sconfitta come nella vittoria. Unica eccezione,  il 22 maggio 2010. La Champions e il Triplete, solo lacrime di gioia nella notte che 36 anni prima, disperato davanti alla tv per Inter-Cagliari 0-1, mai avrei immaginato di vivere. Papà era ancora con me. L’alzheimer ormai gli aveva sbriciolato i ricordi, ma nei suoi occhi credetti di scorgere il lampo di una luce che ero io ad aver dimenticato. Forse aveva capito tutto anche quella volta.
Modificato da MasterMatrix
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  • 3 settimane dopo...
11 ore fa, aleman dice:

Non so quanto era casuale che l’herrha berlino ha giocato proprio contro il Lipsia. proprio a Lipsia, nel lontano 89, si attivarono molti gruppi della società civile nonche la gente comune nelle cosiddette “dimostrazioni del lunedì”. Lipsia fú una città molto importante della rivoluzione in atto allora.

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  • 2 settimane dopo...
  • 4 settimane dopo...
  • 1 mese dopo...
  • 4 mesi dopo...
  • 4 settimane dopo...

Damián Emiliano Martínez, portiere argentino dell’Arsenal, proviene da una famiglia povera che vive vicino a Buenos Aires. A 18 anni parte per l’Europa per inseguire il suo sogno: diventare un calciatore professionista. Dopo sei prestiti in giro per l’Europa e poche partite giocate con il suo Arsenal, che gli costano il soprannome di “eterna riserva”, i suoi sacrifici vengono ripagati: ieri, infatti, ha vinto la FA Cup da titolare a Wembley con i Gunners. Al fischio finale scoppia a piangere di fronte ai microfoni e viene sostenuto da Aubameyang che chiede più volte rispetto per il compagno. Dopo la premiazione decide di sedersi a bordocampo per videochiamare i suoi genitori, che non vede da oltre un anno per via della pandemia di Coronavirus. Come se non bastasse, per entrare ancora di più nel cuore dei suoi tifosi, c’è un video che mostra Emiliano mentre dice “non mi interessano i soldi” a qualcuno del club. Onore a te portierone.

 

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